Il piccione
di Patrick Süskind
Voto: 4 su 5 stelle
Una quindicina d’anni fa (quando avevo già letto da tempo questo breve capolavoro) ero ospite in un agriturismo sulle colline toscane per un convegno. Un bel posto, un antico casale trasformato in albergo a cinque stelle. Il breve soggiorno si preannunciava rilassante e piacevole, nel clima ancora estivo di un mite settembre. Entrai di buon umore nella mia stanza, una bella camera arredata con mobili d’epoca rustici profumati di cera. Ma in cima all’armadio, immobile, c’era un piccione. Grosso, scuro, immobile. A meno di due metri da me. E ho sperimentato esattamente lo stesso senso di orrore assoluto e paralizzante che prova il protagonista del libro di Süskind. Avvicinarsi, aprire la finestra e scacciare l’animale non era nemmeno pensabile. Fui solo capace di andarmene il più velocemente possibile. Mi chiusi la porta alle spalle e mi precipitai alla reception dell’albergo, a far presente con una sfumatura di indignazione che nella mia stanza c’era un piccione. Che qualcuno per cortesia provvedesse. Proprio come il Jonathan Noel del libro. Chissà perché il piccione, che a frotte invade la piazza e la strada cittadina e ne diventa persino elemento simbolico, da foto per bambini e turisti (anch’io ho la mia brava foto da piccolo milanese circondato dai piccioni al Duomo), se sconfina nello spazio privato della casa si trasforma in presenza scandalosa, insopportabile, mostruosa. Eppure è proprio così. Per fortuna, al mio ritorno, qualcuno aveva provveduto. Dell’orrendo intruso non restava traccia. I mobili profumavano di cera, dalle lenzuola di lino saliva una fragranza tenue di lavanda.